Riforma delle pensioni: cosa bolle in pentola?

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unnamedSi prevede una settimana importante per quanto riguarda i dibattiti intorno alla riforma delle pensioni per il 2016: da domani 1° marzo, infatti, iniziano le discussioni nelle Commissioni congiunte Lavoro e Affari Sociali alla Camera del disegno di legge che prevede il contrasto alla povertà e contestualmente il riordino delle prestazioni assistenziali e previdenziali con il nodo della razionalizzazione della pensione di reversibilità.

Prima di concentrarci sulle proposte di riforma attuali, è utile fare un breve excursus (prendendo in considerazioni le due principali riforme) per vedere come è cambiato nel corso del tempo l’istituto delle pensioni e quali sono state le ragioni di fondo che hanno portato a tali cambiamenti.

L’istituto delle pensioni è oggetto di interventi legislativi e riforme sin dalla fine degli anni 70. Tali modifiche al sistema pensionistico e previdenziale italiano è sempre avvenuto in corrispondenza di una fase di crisi economica in cui, a seguito dei cambiamenti del mercato del lavoro, delle difficoltà da parte delle casse dello Stato a garantire una spesa “sostenibile” gli interventi dei Governi che si sono succeduti nel tempo ha sempre visto il sistema pensionistico come “agnello sacrificale” pur di far quadrare i conti, scapito di milioni di lavoratori.

L’iter di riforma e di ripensamento del sistema delle pensioni ha assunto una importanza fondamentale nel 1995, con la c.d. riforma Dini che ha decretato il passaggio dal sistema “retributivo” al sistema “contributivo”:

  • (Legge 335 del 1995). La differenza tra i due sistemi è sostanziale: nel sistema retributivo la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore: essa dipende, dall’anzianità contributiva e dalle retribuzioni, in particolare quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa, che tendenzialmente sono le più favorevoli;
  • nel sistema contributivo, invece, l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco della vita lavorativa.

Il passaggio dall’uno all’altro sistema di calcolo è avvenuto in modo graduale, distinguendo i lavoratori in base all’anzianità contributiva. Si sono così create tre diverse situazioni: i lavoratori con almeno 18 anni di anzianità contributiva a fine 1995 hanno mantenuto il sistema retributivo; ai lavoratori con un’anzianità contributiva inferiore ai 18 anni, alla stessa data, è stato attribuito il sistema misto, cioè retributivo fino al 1995 e contributivo per gli anni successivi; ai neoassunti dopo il 1995 viene applicato il sistema di calcolo contributivo. Quest’ultimo criterio di calcolo comporta una consistente diminuzione del rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo stipendio percepito (cosiddetto tasso di sostituzione): per i lavoratori dipendenti con 35 anni di contributi, la pensione corrisponde a circa il 50-60 per cento dell’ultimo stipendio (per gli autonomi si ha un valore assai inferiore) e si rivaluta unicamente in base al tasso dell’inflazione.

Un altro passaggio fondamentale per comprendere la disciplina delle pensioni è la riforma Fornero che:

  • ha di fatto accelerato di qualche anno il passaggio al sistema contributivo previsto già dalle precedenti riforme che invece prevedevano il graduale slittamento da un sistema all’altro. Inoltre, la riforma Fornero ha innalzato l’età pensionistica di uomini e donne, stabilendo i requisiti per la “pensione di vecchiaia” (in base all’età anagrafica): minimo 20 anni di contribuzione e 66 anni di età per donne del pubblico impiego e uomini (Pa e privati), 62 anni per donne del settore privato (poi 66 anni e 3 mesi nel 2018), 63 anni e 6 mesi per donne lavoratrici autonome (che diventeranno gradualmente 66 anni e 3 mesi nel 2018).
    • abolisce la “pensione di anzianità” (in base al numero di anni di lavoro) sostituita dalla “pensione anticipata”: oggi bisogna aver lavorato 41 anni e 3 mesi per le donne o 42 anni e 3 mesi per gli uomini.
    • prevede un adeguamento periodico dei requisiti di pensionamento in funzione dell’allungamento della speranza di vita. La norma prevede l’aumento dei versamenti contributivi per una serie di categorie occupazionali: cui artigiani, commercianti, lavoratori agricoli e lavoratori autonomi.
    • taglia le rivalutazioni delle prestazioni pensionistiche che superano tre volte il trattamento minimo e dispone l’incorporazione di Inpdap e Enpals presso l’Inps.

Bisogna sottolineare che tra gli “effetti collaterali” della Riforma Fornero il problema causato agli esodati, cioè ai lavoratori che avevano sottoscritto accordi aziendali o di categoria che prevedevano il pensionamento di vecchiaia anticipato rispetto ai requisiti richiesti in precedenza. Complice l’innalzamento dell’età del pensionamento costoro sono rimasti senza più stipendio e senza ancora pensione, per alcuni periodi di tempo.

Il disegno di legge che sarà in discussione da domani alla Camera, prevede il riordino delle prestazioni assistenziali e previdenziali con la possibilità che si vadano a ritoccare le pensioni di reversibilità: si vorrebbe andare, dunque, verso un sistema in cui la previdenza si declina in termine di assistenza e la reversibilità non sarebbe un diritto acquisito attraverso il versamento di contributi ma una forma di assistenza.

Intanto due sono le proposte principali in campo di modifica del sistema pensionistico: la proposta del presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano e quella del presidente dell’Inps Tito Boeri.

Sulla proposta Damiano di Riforma Pensioni c’è un testo in discussione in Commissione, che prevede la pensione anticipata a 62 anni e 7 mesi (4 anni di anticipo rispetto all’attuale età pensionabile di 66 anni e 7 mesi) e 35 di contributi, accettando una penalizzazione dell’assegno intorno al 2% per ogni anno di anticipo (quindi al massimo dell’8%). Tutto questo, secondo Damiano, avrebbe un costo per i primi 4 anni stimato in 8 miliardi di euro ma, «per i successivi 19, per arrivare alla speranza di vita media di 85 anni, avremo solo risparmi. Siamo pronti a dimostrare che il provvedimento complessivamente è a costo zero».

La riforma, spiega Damiano, offre ai lavoratori la possibilità di scegliere:

«Chi fa un lavoro non faticoso e soddisfacente potrà proseguire fino al requisito normale di pensionamento, ma chi ha un lavoro pesante e senza soddisfazioni e ritiene di poter sostenere una decurtazione, avrà la possibilità di uscire. In più si crea un’uscita di sicurezza per chi perde il lavoro dopo i 60 anni. Se Renzi vuole fare una politica di occupazione per i giovani non può avere aziende di quasi settantenni con i giovani esclusi dal lavoro. Quella delle pensioni è una riforma per l’occupazione».

La proposta di riforma del presidente Tito Boeri ha come oggetto:

  • la flessibilità sostenibile in uscita (potrebbe interessare a circa 30mila persone l’anno nei primi anni), in parte coperta con il ricalcolo delle pensioni alte (oltre i 5mila euro al mese) e medio-alte (3.500-5.000 euro) attuarialmente considerate non in linea con i contributi versati (circa 250mila percettori di pensione e 4mila beneficiari di un vitalizio legato a una carica elettiva).

Si tratta della «traduzione in norma» delle numerose evidenze empiriche raccolte con l’operazione “Inps a porte aperte” che ha dimostrato i netti scostamenti in diverse gestioni tra assegni vigenti e il loro valore di equilibrio attuariale. Il ritiro anticipato comporterebbe una penalizzazione media dal 3% al 10% annuo rispetto ai requisiti di vecchiaia tramite il ricalcolo della quota retributiva dei montanti.

Nel calcolo dei costi complessivi delle misure proposte dall’Inps vengono fatti considerare fattori attenuanti come la sostituzione del personale della Pa via pensionamenti flessibili (che produce risparmi) o una propensione al ritiro anticipato inferiore al 100% o, ancora, con l’eventuale introduzione di termini di prescrizione di 5 anni per le domande di ricongiunzione, riscatto trattamento e computo dei regimi assicurativi nel settore scuola. Con queste attenuanti la proposta Boeri costerebbe 150 milioni nel 2016, 1 miliardo nel 2017, 2,5 nel 2018 e 3 miliardi nel 2019.

Entrambe le proposte si dirigono verso un riparto della spesa, cercando di rendere compatibili le entrate con le uscite al fine di rispettare i parametri di razionalizzazione imposti dall’Unione europea. Tuttavia bisogna sottolineare che la proposta Boeri sembra orientata ad una redistribuzione delle risorse ispirata a principi di uguaglianza sostanziale, andando ad intaccare le c.d. “pensioni d’oro”.

Nei prossimi giorni potremo finalmente capire su quale direzione si orienterà il Governo, lascia quantomeno perplessi il fatto che le disposizioni sulle pensioni siano contenute in un disegno di legge che parli di “contrasto alla povertà”. Parlare di sostegno economico e di inclusione attiva e di pensioni nello stesso provvedimento potrebbe far pensare alla solita contrapposizione generazionale agitata negli ultimi anni dai governi che si sono susseguiti per cui “chi in passato ha avuto troppo ora deve restituire” alle nuove generazioni di lavoratori. Insomma, l’ennesima “lotta tra poveri”, convince poco l’idea di togliere a chi ha poco per dare a chi ha nulla, pensare che per creare occupazione basta mandare a casa le vecchie generazioni di lavoratori rischia di essere una soluzione che non rivolve un problema che evidentemente deve essere affrontate con riforme strutturali che vanno in tutt’altra direzione:  in primis pensare ad un nuovo piano industriale e del lavoro, creare nuova occupazione attraverso investimenti cominciando dal settore della ricerca, valorizzare le migliaia di “eccellenze” che sono costrette ad andare all’estero, redistribuire la ricchezza, ma facendolo “dall’alto verso il basso” e non “dal basso al basso” come si rischia di fare con l’ennesima riforma delle pensioni.

 Praticante in diritto del lavoro

 Corizzo Salvatore

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