La futura riforma delle pensioni rende l’estate di milioni di lavoratori ancora più calda

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unnamedA ridosso dell’importante sentenza della Corte Costituzionale (70/2015), che ha giu­di­cato ille­git­timo il blocco dell’adeguamento delle pen­sioni deciso dal governo Monti (mini­stra Elsa For­nero) nel “Salva Ita­lia” del 2011, norma valida per gli anni 2012 e 2013, si cominciano ad intravedere le linee guida che dovrebbero accompagnare la redazione della nuova riforma delle pensioni. La misura oggetto della pronuncia della Corte, fece recu­pe­rare ai conti dello Stato circa 1,8 miliardi nel 2012 e altri 3 nel 2013 — cal­cola l’Avvocatura dello Stato — soldi che adesso il governo potrebbe dover cer­care per una serie di maxi risar­ci­menti a tutti i danneggiati.

Il blocco riguardò circa 6 milioni di pen­sio­nati, quelli con asse­gno supe­riore a tre volte il minimo (circa 1500 euro lordi, pari più o meno a 1200 netti). Il governo Letta, nel 2013, ammor­bidì il provvedimento reintroducendo l’adeguamento per le pen­sioni fino a 6 volte il minimo (ovvero, intorno ai tre­mila euro lordi), e man­te­nendo il blocco totale per quelle supe­riori. Le norme di Letta sono in vigore ancora oggi, il governo Renzi non le ha mai modi­fi­cate, e val­gono per il trien­nio 2014–2016.

Secondo i giudici della Corte: «L’interesse dei pen­sio­nati, in particolar modo i tito­lari di trat­ta­menti previdenziale mode­sti, è teso alla conservazione del potere di acqui­sto delle somme per­ce­pite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una pre­sta­zione previdenziale ade­guata. Tale diritto, costituzionalmente fon­dato, risulta irragionevolmente sacri­fi­cato nel nome di esi­genze finan­zia­rie non illu­strate in dettaglio».

Le parole della Corte sono inequivocabili, rendendo chiaro l’illegittimità di una parte della riforma delle pensioni redatta durante il governo Monti, definendo il sacrificio imposto nella riforma come “irragionevole”.

Vediamo se le linee guida che si stanno discutendo in questi giorni, con un vero e proprio “ping-pong” tra il presidente dell’INPS Boeri e il presidente del Consiglio si discostano da quelle in parte bocciate dalla Consulta o ci troveremo a fare i conti di nuovo con norme che rischiano di imporre ulteriori sacrifici senza un vero fondamento di natura economica.

Le Proposte di Boeri:

Nel rapporto annuale dell’INPS presentato in Parlamento, il presidente Boeri ha individuato 5 punti cardine su cui riformare le pensioni e la disciplina della previdenza.

Elemento di assoluta novità è la costituzione di una rete di protezione sociale dai 55 anni in su: l’idea è quella di prevedere una sorta di “reddito minimo garantito” per coloro che superati i 55 anni si trovano senza occupazione e senza un trattamento pensionistico. Presupposto della eventuale misura è la distinzione tra assistenza e previdenza anche a livello contabile. Secondo il presidente dell’istituto previdenziale attraverso questa via si “potrà superare un vizio d’origine del sistema contributivo”, cioè quello “di non prevedere prestazioni minime per chi non ha altri redditi e ha accumulato un montante contributivo troppo basso per garantirsi una pensione al di sopra della soglia di povertà”. Questa misura dovrebbe essere finanziata dalla fiscalità generale.

Fine delle ricongiunzioni onerose: attraverso questa modifica sarà possibile unificare la pensione tra regimi diversi, compresa la gestione separata, senza ulteriori oneri aggiuntivi. In questo modo verrebbe meno la penalizzazione subita dai lavoratori che hanno cambiato più posti nella propria carriera lavorativa.

Armonizzazione dei tassi di rendimento garantiti ai contributi: Le forti asimmetrie nei trattamenti previdenziali, sottolinea l’economista, nascono proprio dalla differente rivalutazione dei contributi versati. Queste differenze non si basano su quanto ciascuno ha versato ma sui tassi di rendimento garantiti ai contributi versati da certe categorie specifiche di lavoratori. Questo vale per i fondi amministrati dall’Inps, ma Boeri lo chiede a tutti, anche ai parlamentari, per i loro vitalizi, che non ricadano sui conti dell’istituto.

Flessibilità sostenibile: da ottenere spalmando il montante accumulato nel corso della vita lavorativa in relazione all’età di uscita e alla speranza di vita residua. Tale flessibilità è tagliata sul modello contributivo, attraverso la ripartizione mensile, in base all’età e alla speranza di vita residua, del montante accumulato grazie ai contributi versati. In tal modo, coloro che vorranno usufruire di un pensionamento anticipato, avranno diritto ad un trattamento pensionistico inferiore a coloro che attenderanno.

Supplemento alla pensione: Dovrebbe essere quindi possibile il versamento di contributi aggiuntivi, oltre a quelli obbligatori, da parte dei datori di lavoro ai loro dipendenti.

Le voci della politica

Intanto il presidente del Consiglio Matteo Renzi “prende tempo” e non si espone in merito alle proposte, rilanciando su altro: il premier ha annunciato una riforma fiscale per il prossimo triennio che non riguarderebbe una riforma delle pensioni causa assenza di risorse. Oggetto della manovra fiscale sarebbe la riduzione delle aliquote Irpef dalle 5 attuali a 2 (23 e 33%), innalzando la no tax area (attualmente a 8000 euro per i lavoratori dipendenti e 7500 per i pensionati) fino a 10000 euro.

Ben più dibattito ha suscitato nei confronti di alcun parti politiche e nei confronti dei sindacati la proposta di “uscita flessibile” con il ricalcolo contributivo che potrebbe penalizzare in maniera consistente i lavoratori in uscita.

Tra i tanti che chiedono di evitare il contributivo ci sono anche i sindacati, con la Uil in prima fila che ha portato in evidenza un suo studio per dimostrare che il passaggio alla pensione anticipata tramite ricalcolo contributivo porterebbe la riduzione dell’assegno tra il 10 e il 34%. Nei tre casi analizzati si vede come un lavoratore dipendente con 62 anni di età e 36 di anzianità contributiva appartenente al regime misto si vedrebbe decurtare la pensione del 12,67% (passando in questo caso da 2163 a 1889 euro mensili). Peggio ancora per il secondo caso, di un lavoratore che è in regime retributivo che dopo 39 anni e 6 mesi di contribuzione si troverebbe a 62 anni con una pensione di 2.209 euro. Passando al contributivo l’assegno scenderebbe a 1527, con un taglio del 30% e ben 8800 euro annui incassati in meno. Nel terzo caso, sempre con passaggio da retributivo a contributivo, la penalità sarebbe addirittura del 34%, passando da 2345 a 1549 euro mensili.

Ovviamente i giochi non sono ancora chiusi, in settimana c’è stato un incontro tra il Ministro Poletti e le sigle sindacali, in cui è stato affrontato il tema della flessibilità del sistema previdenziale nella legge di Stabilità, la no tax area e la lotta alla povertà.

Ci aspettano giornate estive roventi in attesa di capire quali saranno le proposte che il governo metterà sul piatto, intanto milioni di lavoratori aspettano con il fiato sospeso.

                                                                                                                                  Collaboratore sportello del lavoro precario

                                                                                                                                                              Corizzo Salvatore

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